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mercoledì 28 maggio 2014

Elezioni

Sono già tre volte che mi chiamano per i seggi elettorali.
A me piace. Di tanto in tanto quando Mentana ipotizza cadute del governo penso "così si va a votare", idem dopo le tangenti per l'expo "Maroni se ne va e io vado a votare".

Fa sentire importanti, niente di più bello quando mi sigillo in cabina elettorale o quando inserisco la scheda nell'urna.

Ma veniamo al lavoro di scrutatore, anche quello mi piace tantissimo. Scrivere, contare e firmare. Dire "buongiorno" una volta al minuto. Ripetere costantemente "la scheda blu è per le amministrative e quella grigia per le europee, si ricordi di non sovrapporle mentre traccia il segno". Che poi invece di obbligarci a dirlo circa 763 volte (grandi affluenze in piccoli paese) non sarebbe più semplice utilizzare una carta che non renda possibile il trasferimento di colore?

Ma la riflessione fondamentale e principale è una e non era questa.
Noi scrutatori per lo più eravamo in jeans e maglietta, felpa che andava e veniva lungo le interminabili 19 ore e mezza passate là, invece la gente che si susseguiva era un pot-pourri di figaggine.
Tutti tirati a lucido.
Le signore sfoggiavano perle, camicette bianche di seta, pettinature invidiabili. Uomini in camicia. Ragazze truccate e sistemate nemmeno fossero il sabato sera al Met Gala.

La gente per lo più veniva a votare per incontrare qualcuno, per fare due chiacchiere, per aggiornarsi su vivi, morti, divorzi, separazioni, figli, corna e quando vai ad aggiornarti, se non vuoi che poi parlino male di te, ci vai infighettata fino alla punta dei piedi e tenti di tirarti dietro l'intero nucleo familiare così da poter apparire la più felice delle famiglie.

Questo strano fenomeno sociologico che è il giorno delle elezioni, in un piccolo piccolo borgo mi lascia ogni volta tra lo stupore, lo sconcerto, l'ammirazione e la diffidenza.

E tutte le volte che mi hanno detto "ciao! La mamma tutto bene? Salutami a casa" io non avevo idea di chi fosse la persona, ma con un sorriso Durbans, sfoggiavo un convincete "bene, bene".

mercoledì 14 maggio 2014

25 anni

25 anni e non ho mai saputo fare la ruota
25 anni e non so andare in bici senza mani
25 anni e emotivamente una tredicenne
25 anni e ho da poco imparato a deglutire le pastiglie
25 anni e un odio profondo per chi mi dice "pensavo ne avessi 18"

25 anni e non riuscire mai a digitare "sinonimo" correttamente al primo tentativo
25 anni e ancora incapace di mangiare l'insalata
25 anni e due piedi storti e sghembi
25 anni senza aver mai visto Harry Potter o il signore degli anelli o Star Wars
25 anni e canto UfoRobot senza averne mai visto una puntata

25 anni e non so nessuna canzone a memoria dall'inizio alla fine. Nessuna.
25 anni e ancora basta non dirmi gli ingredienti per farmi mangiare
25 anni e mai fumato una sigaretta, forse nemmeno sarei capace
25 anni e ancora una nebulosa nella testa su quello che voglio
25 anni e ancora miliardi di esperienze da provare

25 anni e ho letto molti meno libri di quelli che avrei potuto
25 anni e svariati titoli iridati in scelte sbagliate
25 anni e un'arte nell'espressione del "che schifo"
25 anni scanditi dalla scuola
25 anni e confondere sempre tra loro i nomi Guido e Diego

25 anni di dipendenza dalla teina
25 anni e tante cicatrici sulle ginocchia
25 anni e sul muro di casa le tacche della mia altezza segnate sulle mattonelle in cucina
25 anni a vivere di latte e grana
25 anni e auguri piccola rompiscatole

giovedì 1 maggio 2014

Questa è la storia di un phon





Un phon pure bruttino, parecchio rammendato, acusticamente ingombrante.

Quando ero una nanetta che vagava per casa con una scodella di capelli castani, in bagno avevamo un phon a parete, apposta per nanetti. Bianco, visivamente gradevole, di quelli che non deve esserci mamma lì, ma da vera bambina indipendente ci si poteva asciugare i capelli da sola.

Però c'era anche lui. Il phon grigio, quello "dei grandi", che poi "i grandi" era mamma. Quello con la spina, quello che si doveva tenere lontano dall'acqua, quello che se troppo vicino ai capelli se li mangiava e ne usciva un odorino di bruciato. Ma quel phon grigio era lì e io che da quando sono venuta al mondo voglio sempre qualcosa in più di quello che ho, non vedevo l'ora arrivasse il momento in cui avrei potuto usare anch'io non più il phon da bambina, ma il phon grigio.
Poi nonostante i presupposti non fossero dei migliori, sono cresciuta anch'io e ho iniziato ad usare il phon grigio. Grandi traguardi per basse persone.

Con il tempo il phon grigio è stata una di quelle cose scontate, appena dopo l'accappatoio, come un automatismo c'è lui e nemmeno sapevo di volergli bene.

Ora che Fratello ha lasciato la sua camera per altri lidi, Mater se n'è uscita con "diamogli il phon grigio vecchio, così noi ne prendiamo uno nuovo per noi".

Eresia! No! Mai! Quel phon non si muove da quel cassetto se non quando non esalerà più alcun soffio caldo.
Non lo voglio un phon nuovo, voglio quello.

Si, il phon grigio è ancora qui, con lo sconcerto materno, che ha ottenuto l'ennesima riprova di avere una progenie che rasenta i disturbi comportamentali.

Questa era la storia del phon o meglio, la storia di come io si attaccata a certe cose.
Perchè questo post si sarebbe potuto benissimo chiamare "questa è la storia dello scolapasta bianco".

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